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Svelata genetica del Long Covid: la studiosa senese Renieri ha coordinato un gruppo di ricerca che ha dato impulso a uno studio internazionale

Sono stati presi in esame oltre 6 mila pazienti. La variante cromosomica dà il 60% di possibilità in più di contrarre la malattia

Andrea Bianchi Sugarelli

07 Giugno 2025, 06:00

Covid

Alessandra Renieri, Genetica Medica all’Università di Siena

Un grande passo avanti nella comprensione del Long Covid arriva da uno studio genetico internazionale pubblicato su Nature Genetics. La ricerca ha identificato nuove varianti genetiche che aumentano il rischio di sviluppare questa condizione, che può colpire anche mesi dopo l’infezione da Sars-Cov-2 con sintomi come stanchezza, difficoltà cognitive e respiratorie, dolori muscolari. A guidare la partecipazione italiana allo studio è stata Alessandra Renieri docente ordinario di genetica all’Università di Siena, direttrice Uoc di Genetica medica all’Azienda ospedaliero-universitaria Senese e coordinatrice del consorzio Gen-Covid che riunisce oltre 40 ospedali italiani. Il gruppo di Siena ha avuto un ruolo centrale nella raccolta e nell’analisi dei dati genetici, grazie anche al sostegno della Regione Toscana e del Pnrr THE-Tuscany Health Ecosystem.

Lo studio, condotto su oltre 6.400 pazienti con long Covid e più di un milione di controlli, ha permesso di individuare una particolare variante genetica sul cromosoma 6, vicino al gene FOXP4, legato già in passato a infezioni respiratorie e alla risposta immunitaria. Chi possiede questa variante risulta avere un rischio di long Covid aumentato di circa il 60%. Il risultato è stato confermato su altri 9.500 pazienti e 700.000 controlli, rafforzando l’attendibilità della scoperta.

Secondo gli autori, questa evidenza mostra come la genetica giochi un ruolo chiave nella suscettibilità al long Covid. Capire chi è più a rischio permetterà in futuro di mettere a punto strategie di prevenzione e cure più mirate. Il long Covid rappresenta oggi una sfida importante per i sistemi sanitari: secondo l’Oms, interessa tra il 10 e il 20% di chi ha avuto il Covid.

 

-       Professoressa Renieri, qual è stato il ruolo dell’Università degli Studi di Siena e dell’Azienda ospedaliero-universitaria Senese nello studio internazionale sul long Covid pubblicato su Nature Genetics?

Importante, perché abbiamo coordinato tutta la casistica italiana che ha poi contribuito a quella più ampia a livello internazionale. Studi di questo tipo richiedono un numero elevato di pazienti e una grande quantità di dati. Io ho coordinato il consorzio italiano, che coinvolge più di 40 ospedali, grazie anche al sostegno della Regione Toscana (giovedì, durante una riunione al Meyer, sono stati presentati i risultati, ndr) e del Pnrr. Il progetto inizialmente mirava a identificare i fattori genetici dell’ospite: il 98% delle persone si infetta senza sviluppare una malattia grave, mentre il 2% – pur infettato dallo stesso virus – sviluppa forme gravi. La differenza non la fa tanto il virus, quanto le caratteristiche genetiche dell’ospite. Il progetto si proponeva di individuare queste differenze e capire se fosse possibile identificare in anticipo chi avrebbe rischiato di rientrare in quel 2%. L’obiettivo finale era anche quello di migliorare le strategie di prevenzione, dalla vaccinazione all’isolamento. Abbiamo ottenuto molti risultati: questo ultimo riguarda non tanto la malattia acuta, ma il long Covid, ovvero gli effetti a distanza dall’infezione, e ci permette di capire chi è più a rischio di sviluppare questa sindrome clinica e quindi chi deve essere maggiormente protetto. L’ultima pubblicazione ha individuato un gene che ora dovremo studiare ulteriormente: riguarda la reazione del sistema immunitario.

 

-       In che modo la conoscenza del genoma può contribuire alla prevenzione e al trattamento del long Covid e di altre malattie infettive?

Il nostro obiettivo è la prevenzione primaria delle malattie: conoscere il nostro genoma ci permette di capire a quali patologie siamo più suscettibili. Il virus rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente, per sviluppare la malattia; alcune persone, infatti, possono avere una maggiore predisposizione genetica. Come genetisti, il nostro compito è proprio quello di individuare le cause genetiche delle malattie per poter fare prevenzione, soprattutto nelle patologie infettive dove la prevenzione stessa è fondamentale, così come la possibilità di intervenire con terapie mirate. Se non riusciamo a tradurre tutte le nuove conoscenze nella pratica clinica, il nostro percorso non può dirsi completo. Anche in Regione Toscana, giovedì, abbiamo discusso proprio di questo durante il meeting ‘Bando di ricerca Covid-19 Toscana, risultati e prospettive future’, con la speranza di poter rendere concreto il passaggio dalla ricerca alla pratica clinica, cioè la cosiddetta “traslazione” delle conoscenze. 

-       La ricerca è il vero motore del futuro?

Sicuramente sì. Il futuro sarà aumentare le conoscenze scientifiche per realizzare una prevenzione e una terapia reale. Identificare i soggetti a rischio ci permette di proteggerli, ad esempio attraverso la vaccinazione. Nel caso del nostro studio, la genetica consente sia di individuare chi è più suscettibile alla malattia acuta sia di migliorare le strategie terapeutiche trattando i pazienti secondo le loro specificità genetiche. Tornando al long Covid, ricordiamo che è una condizione piuttosto invalidante che coinvolge anche il sistema nervoso centrale.

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