Siena, la città che fra le proprie mura protegge un patrimonio artistico unico al mondo, ha riaperto le porte all’arte del nostro tempo. La città per organizzare i propri eventi espositivi, valorizzare il patrimonio esistente ed implementare quello immateriale con eventi aperti all’arte contemporanea, ha saputo individuare nella figura di Cristiano Leone, un soggetto dinamico e preparato che ha già avviato un progetto artistico ed espositivo per la città. Abbiamo avuto occasione di incontrarlo ed intervistarlo.
Lasciare Napoli all’età di 17 anni per dirigersi nel cuore dell’Europa con ambizione e progetti è veramente un’esperienza emozionante e formativa. Ci può raccontare come l’ha vissuta?
"Lasciare Napoli a diciassette anni non fu un gesto d’ambizione ma di necessità. Sentivo che per capire chi ero, dovevo sottrarmi. Non da Napoli ma da una forma di me stesso che non bastava più. Quel distacco non è stato una rinuncia ma una prima forma di ascolto. Ho attraversato l’Europa come si attraversa un varco: ogni lingua, ogni paesaggio, ogni volto mi ha permesso di disfare i miei confini. In Francia ho vissuto gli anni più decisivi della mia formazione, imparando che comprendere l’altro significa innanzitutto cambiare posizione, accettare di non sapere. Come scrive Ruggero Bacone, “La conoscenza del mondo passa attraverso la conoscenza delle lingue”. Le lingue mi hanno insegnato a vedere, a pensare, a restare in bilico. Oggi torno spesso a Napoli, dove vive la mia adorata famiglia ma soprattutto ho ritrovato un legame profondo con Capri, dove sto trasformando una dimora storica in un luogo di condivisione, ricerca e apertura. Non un rifugio ma un piedistallo vivo sospeso tra pensiero e paesaggio. La mia idea d’Europa è nata militante – con la pubblicazione, insieme ad altri intellettuali europei, di una lettera aperta a Merkel, Hollande e Renzi su Die Welt, Libération e la Repubblica – ma oggi ha preso la forma di una chiamata più radicale: costruire una cultura europea reale che non si esaurisca nella diplomazia né nella geopolitica. Chi interroga davvero l’identità europea, non può ignorare quante affinità culturali ci legano a mondi che oggi tendiamo a escludere. Penso, ad esempio, alla Russia. La cultura può ancora essere il luogo dove si riaprono strade che la politica ha chiuso. Viaggiare non è collezionare differenze. È imparare a comunicare davvero. A farsi strumento. A diventare ponte".
Oltre all’esperienza internazionale curatoriale si è dedicato alla produzione di saggi. Come accorda le due attività? Quale dei suoi saggi vorrebbe consigliare ai nostri lettori?
"Scrivere e curare sono per me due movimenti dello stesso respiro: interiorità ed estroversione. La scrittura è solitudine, rigore, tempo che sedimenta. La curatela è esposizione, ascolto, responsabilità nel creare una grammatica del visibile. Due libri accompagnano queste due vite. Il primo è Alphunsus de Arabicis Eventibus, un’edizione critica che ho pubblicato giovanissimo per l’Accademia dei Lincei. Si tratta di un manoscritto medievale che rinvenni alla Staatsbibliothek di Berlino e che decifrai e tradussi. Si trattava probabilmente un quaderno di uno studente. I piccoli disegni a margine – proprio come quelli che oggi ritroviamo nei quaderni dei liceali – mi hanno colpito più del testo stesso. Erano la prova che, in ogni epoca, il bisogno di immaginare supera il dovere di copiare. Il secondo è The Atlas of Performing Culture, per Rizzoli International, che esplora la performance come forma di verità incarnata: un linguaggio che attraversa i corpi, gli spazi, i contesti. Lì parlo anche dell’architettura come primo atto performativo, come luogo in cui la persona entra in relazione con ciò che lo circonda. Credo nei festival come strumenti di coesione e visione collettiva e nella performance come pratica che crea comunità".

Lei figura tra i maggiori studiosi e appassionati di arte contemporanea al femminile. Possiamo ritenere che oggi le artiste hanno conquistato il sistema dell’arte o ancora vi sono elementi di discriminazione anche in questo settore?
"Ho sempre cercato di dare voce a ciò che non viene ascoltato. Alle minoranze, alle fratture, agli sguardi obliqui. Ma proprio per questo oggi sento il bisogno di fare un passo ulteriore. Il vero superamento delle discriminazioni non sta nel nominare costantemente le differenze ma nel sottolineare ciò che ci unisce tutti. L’empatia che sento verso certe opere non dipende dal genere di chi le ha create. Alcune delle artiste che più mi hanno cambiato sono donne. Ma non perché donne. Perché potenti, spiazzanti, necessarie. Ricordo con emozione la voce di Yoko Ono, durante una conversazione in occasione di una mostra che curai: quella voce era già presenza, già gesto. Vorrei che smettessimo di parlare di arte “femminile”, “maschile”, “queer” o “neutra” come se l’identità fosse il contenuto. Il contenuto è l’impatto sull’altro. Il modo in cui un’opera ci sradica o ci guarisce, ci costringe a guardare. Forse i paradossi del nostro tempo – anche gli eccessi wokisti – ci servono per ricordare che l’obiettivo non è più la denuncia ma l’integrazione silenziosa della libertà".
L’arte contemporanea in Italia e segnatamente in Toscana, fatica ad esprimere il proprio linguaggio al di fuori dei mondi degli appassionati e degli esperti. Quali progetti potrebbero, a suo avviso, facilitare l’adesione dei fruitori e dei turisti in una città dal grande passato artistico come Siena?
"Il contemporaneo, da solo, non basta. Nessuna opera può reggersi senza contesto. Senza una rete viva di riferimenti, di memoria, di ascolto. A Siena – città costruita sulla tensione tra ordine e libertà nel senso più assoluto – l’arte deve essere chiamata a misurarsi con la storia. Non per illustrarla ma per interrogarla. Non credo nelle grandi mostre-evento come soluzione. Credo nell’esigenza qualitativa come principio motore. L’arte deve chiedere molto a chi la guarda. Ma non deve lasciarlo solo. Serve una politica culturale che sappia creare ponti: educazione, accompagnamento, desiderio. Solo così l’arte più radicale diventa quotidiana. Solo così anche la sperimentazione diventa patrimonio condiviso. L’accessibilità non è semplificazione: è profondità mediata con amore".
Apriamo i cassetti dei sogni! Cosa tiriamo fuori per la città di Siena?
"Il mio sogno è che Siena ritrovi il coraggio della sua vocazione profonda: quella di essere una città-simbolo, una città-oracolo. Qui, ogni pietra parla di giustizia, di misura, di tensione verso il bene. Il Buon Governo non è un’utopia pittorica: è una proposta politica ancora attuale. Il Duomo, con la sua incompletezza scelta, è un inno all’umiltà. Il Santa Maria della Scala è una cattedrale della cura. Il sogno è che Siena diventi un laboratorio spirituale del nostro tempo: dove il pensiero si fa gesto e il gesto si fa politica. Dove la cultura unisce, non divide. Dove ogni visitatore si senta parte di un’idea più grande. Perché non tutto è sfida. A volte, la vera forza è essere con l’altro".