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LA PUBBLICAZIONE

Torna la pista sarda per il Mostro di Firenze

Non è stata ancora messa la parola fine alla vicenda che ha fatto epoca: nuovo libro di Giuseppe Rinaldi e Nunziato Torrisi

Duccio Benocci

31 Ottobre 2025, 21:18

Barbara Locci e Antonio Lo Bianco

Barbara Locci e Antonio Lo Bianco

Non si è ancora messa la parola ‘fine’ al cold case italiano per eccellenza, ovvero alle intricate vicende raggruppate sotto l’etichetta “Mostro di Firenze”.

Di recente perfino una riesumazione (resti di Francesco Vinci), oltre ad esami del DNA a morti (per capire se il cadavere fosse realmente quello del Vinci) e a vivi (Natalino Mele, risultato figlio di Giovanni Vinci, uno degli amanti della madre, Barbara Locci). Il Mostro di Firenze fa ancora notizia! Ogni estate, poi, immancabili succulente novità ad animare il torpore estivo. Dallo scorso 22 ottobre anche una ‘serie’ dedicata su Netflix.

Sono ormai passati quarant’anni dall’ultimo degli otto duplici omicidi, i principali sospettati ed i ‘coinvolti’ a vario titolo sono già tutti deceduti e, nonostante ciò, la bibliografia sull’argomento continua ad aumentare, anno dopo anno, con teorie sempre rivoluzionarie, addirittura piste e nomi ‘nuovi’. Ultimo titolo uscito: “Il Mostro di Firenze. La verità nascosta” (Mursia), scritto a quattro mani da Giuseppe ‘Pino’ Rinaldi e da Nunziato Torrisi. Rinaldi non ha certo bisogno di troppe presentazioni: popolare giornalista, autore e conduttore televisivo, per 27 anni apprezzato inviato della trasmissione Chi l’ha visto?; Torrisi, invece, è conosciuto soprattutto dagli appassionati del Mostro o dai ‘mostrologi’, come quel carabiniere siciliano, che dal 1983 al 1986, da tenente colonnello e comandante del reparto operativo di Firenze, ha indagato sugli omicidi delle coppiette e che nell’aprile 1986 firmò il celebre Rapporto omonimo.

Giuseppe Rinaldi

Nunziato Torrisi

Come noto, dal settembre 1974 al settembre 1985 la provincia di Firenze, la Toscana, ma in realtà l’Italia tutta, vennero scosse da sette orribili duplici delitti: uccisioni random (attraverso colpi d’arma da fuoco), ma tutte in situazioni particolari (unico ‘minimo comun denominatore’), talune caratterizzate da orribili escissioni sui corpi femminili. Nel 1982, poi, in seguito all’allora ultimo delitto a Baccaiano (quarto dei sette), un carabiniere si ricordò (forse aiutato da una lettera anonima, di cui, però, non è stata serbata traccia agli atti) di un’altra coppia uccisa in località Castelletti di Signa, il 21 agosto 1968. In quel caso, non giovani fidanzatini, magari in procinto di sposarsi, bensì due amanti focosi, pertanto fu bollato subito come un “delitto d’onore”, passionale, commesso dal marito (il sardo Stefano Mele), reo confesso, tradito ripetutamente da colei (ugualmente sarda) che in paese era detta, senza mezzi termini, l’“ape regina”. Però, a sparare fu sempre la stessa pistola, una Beretta Long rifle calibro 22 abbastanza usurata, con medesimi proiettili di marca Winchester serie H (lettera impressa sul fondello). Dunque i duplici crimini son passati da sette a otto, per un totale di sedici vittime innocenti (senza considerare le altrettanto numerose morti misteriose o, per così dire, ‘collaterali’). Nacque così la cosiddetta “pista sarda”, un filone investigativo che coinvolgeva un clan di famiglie emigrate dall’isola nell’hinterland di Firenze, e che sarà tenuto in debita considerazione – nonostante i sospettati fossero poi sempre scarcerati grazie all’attività del Mostro in libertà – fino alla sentenza Rotella e al processo Pacciani.

Rinaldi, che si è avvicinato a questo caso di cronaca nera tuttora irrisolto piuttosto tardivamente (dal 2001 circa), con il collega de La Nazione Mario Spezi, aveva già raccontato i delitti del Mostro, proprio a partire da quello del 1968, perché era da lì che occorreva ripartire per dipanare la ‘matassa’. Inoltre, sempre a Rinaldi (con Luciano Palmerino) si deve il soggetto e la sceneggiatura del video-documentario per Rai Documentari dal titolo “Il Mostro di Firenze. Bugie e verità. Quel silenzio che non tace” (Rai/Verve Media Company, 2021). Poi, sempre con Torrisi, un primo libro, “Il Mostro è libero (se non è morto)” (Typimedia, 2024). Ebbene, gli accattivanti titoli che Rinaldi usa sono assai importanti, perché di fatto anticipano alcuni aspetti del contenuto dell’opera. Nel caso del video-documentario ci viene suggerito che non ci può essere un vero e proprio silenzio senza che giustizia sia stata fatta. Mentre nel caso del primo volume sull’argomento, fin dalla copertina o dal frontespizio viene implicitamente rigettata la sentenza di condanna contro i “Compagni di merende” (Vanni, Lotti, col coordinamento dell’allora già defunto Pacciani, ovvero gli esecutori materiali degli ultimi quattro assassinii) e con essa la presenza di un “secondo livello” (i “Gaudenti”, ossia i mandanti interessati ai feticci femminili, forse per riti esoterici).

L’ultima fatica del duo Rinaldi-Torrisi racconta in sostanza, con dovizia di particolari, un’indagine seria, quella condotta dall’allora maggiore dei carabinieri, poi diventato tenente colonnello (e infine generale). Torrisi, come già accennato, cristallizzò il suo “lavoro” (esiti di interrogatori, pedinamenti, intercettazioni, perquisizioni, ma anche prove e indizi) e tutte le sue convinzioni in un fitto ed importante Rapporto, che, consegnato nelle mani della Procura fiorentina, purtroppo non ebbe seguito; anzi, un seguito lo ebbe, in verità: nel 1986, forse per essersi avvicinato troppo alla «verità nascosta» (ecco che il sottotitolo assegnato ci viene, di nuovo, in soccorso!) fu allontanato improvvisamente da Firenze, direzione Lecce. Scrive Rinaldi: «Da giornalista, sapevo che le 16 vittime della catena di omicidi […] erano anche una spietata rappresentazione dell’eterno conflitto tra pezzi dello Stato: polizia e carabinieri, procure e giudici, politici e personaggi in cerca di notorietà» (p.29). D’altronde, siamo in Italia, non è la prima volta che un personaggio troppo capace venga ‘promosso e rimosso’ dal proprio incarico (Promoveatur ut amoveatur, dicevano i nostri antichi). Né è la prima volta che assistiamo a una simile ‘partita a scacchi’ tra pezzi delle istituzioni, in cui, evidentemente, la posta in gioco è alta.

Ad un certo punto, dopo tanti buchi nell’acqua (diversi i personaggi attenzionati, fermati in carcere, ma quella maledetta pistola continuava a sparare) era necessario consegnare un colpevole all’opinione pubblica, altrimenti il rischio – per gli inquirenti – sarebbe stato quello di essere bollati come incapaci. Fu individuato un “mostro”, certo, ma forse non il Mostro! Dapprima si pensò ad un serial killer unico, solitario (Pacciani), poi addirittura ad uno a tre teste (Pacciani, Vanni e Lotti, in seguito alle confessioni di quest’ultimo, divenuto d’improvviso collaboratore di giustizia).

Tutto vero e documentato quello che viene riportato nel libro; unico espediente narrativo, se vogliamo ‘letterario’, l’incontro tra i due autori ed il dialogo avvenuti in un treno Intercity, in viaggio, in notturna, da Lecce fino a Torino: una lunga percorrenza per ripercorrere e fare finalmente chiarezza su quei delitti seriali davvero unici nell’intera storia giudiziaria italiana.

Un’arma che si è macchiata di uno o più delitti non passa di mano, prima regola ‘tautologica’. Ma mettiamo pure, per un attimo, che la pistola usata per uccidere Locci-Lo Bianco sia stata ceduta o sottratta o rinvenuta da qualche parte: a livello statistico, con quale probabilità potrebbe venire impiegata da un’altra persona per replicare esattamente la tipologia del primo delitto, nonché la stessa dinamica? Dunque, detto tutto ciò, la Beretta è la “chiave” dell’intera inchiesta, e l’assassino è sempre lo stesso fino all’ultimo degli otto delitti. E grande valore assume quello iniziale del 1968, consumato sì in ambito sardo, ma considerato «la madre di tutte le storie legate al Mostro di Firenze» (p.29): in sostanza, risolverlo, risolvere quell’enigma (rispondendo alla fatidica domanda: effettivamente chi sparò?), significherebbe risolvere l’intero caso pluriennale. L’uccisione (una vera e propria esecuzione?) di Barbara Locci con l’amante di turno, il siciliano Antonio Lo Bianco, già «conteneva tutti gli ingredienti e alcuni protagonisti della vicenda» (Ivi). Poi, ad un tratto, il Mostro non colpì più; al tempo si disse che era morto o gravemente malato, forse recluso ma per altri reati, oppure, con più probabilità, siccome sentiva troppo fiato sul collo… sparì o fu facilitato a sparire. Di lui ci rimane il profilo, estremamente significativo, che ne tracciò il primo presunto Mostro, tratto in arresto poi scagionato e, poco dopo, barbaramente ucciso col suo servo-pastore: «Il Mostro è uno molto intelligente, uno che sa muoversi di notte in campagna anche a occhi chiusi, uno che sa usare il coltello non come gli altri, uno che una volta ha avuto una grandissima delusione» (p.56). Parola del cagliaritano Francesco Vinci, che, evidentemente, lo conosceva bene… Quindi, per scoprire l’identità del Mostro di Firenze non rimane che leggere tutto d’un fiato quanto scritto dal ‘duo’ Rinaldi-Torrisi.

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