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Siena

Un capolavoro senese è in fase di restauro

Il Museo e Real Bosco di Capodimonte ha avviato i lavori al trecentesco San Ludovico da Tolosa di Simone Martini

Giuseppe Simone  Modeo

20 Dicembre 2025, 06:45

San Ludovico da Tolosa che incorona Roberto d’Angiò

Davanti a certi capolavori, il tempo sembra fermarsi. Eppure il tempo, sulle tavole medievali, lavora sempre: nel legno che si muove, nelle giunzioni che cedono, nella doratura che chiede cura. Per questo la notizia che arriva da Napoli riguarda da vicino anche Siena, forse più di qualunque altra città: il Museo e Real Bosco di Capodimonte ha avviato il restauro del “San Ludovico da Tolosa che incorona Roberto d’Angiò” di Simone Martini, una delle vette assolute della pittura del Trecento. E, soprattutto, un’opera che porta scritto dentro di sé – con orgoglio quasi “civico” – il nome della nostra Città. Sulla predella, infatti, compare la firma del maestro: “Symon de Senis me pinxit”, “Simone da Siena mi dipinse”. Non è un dettaglio da addetti ai lavori: è un sigillo identitario, un marchio d’autore e, per noi, un richiamo a quel momento in cui Siena non era soltanto un centro artistico ma un laboratorio internazionale capace di esportare stile, tecnologia e visione.

Un “cantiere didattico” davanti al pubblico
Il restauro è partito il 23 settembre 2025 e si svolge con una formula che merita attenzione: un “cantiere didattico” allestito nella stessa sala che ospita la pala (la sala 66 del secondo piano), dove l’opera è esposta stabilmente dal 1966. L’intervento, definito manutenzione straordinaria dopo oltre 65 anni, dovrebbe concludersi entro sei mesi.

Il progetto nasce dalla prima collaborazione-quadro tra il museo diretto da Eike Schmidt, già direttore degli Uffizi e l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, eccellenza mondiale nel campo della conservazione e del restauro. Schmidt ha parlato di un restauro “epocale” per importanza dell’opera e per valore storico legato alla Napoli angioina, ricordando anche l’ultimo grande spostamento della pala nel 1966.

Chi immagina il restauro come una semplice “pulitura” dovrà ricredersi: qui si entra nel cuore fisico dell’opera, nel suo corpo materiale. Le operazioni riguardano alcune fasi sequenziali, ovvero: lo studio della struttura lignea; la chiusura di sconnessioni e fessurazioni del supporto; l’eventuale ricostruzione di piccole mancanze sulla predella; il fissaggio della decorazione a gigli sul retro ed infine il fissaggio e consolidamento della superficie pittorica sul recto in corrispondenza delle commettiture (le giunzioni delle tavole), oggi in parte compromesse dai movimenti del legno.

È un lavoro di precisione che non tocca solo la “pelle” dell’immagine ma persegue stabilità futura dell’opera. E proprio qui si coglie un aspetto affascinante per chi ama Simone Martini: la sua pittura, così elegante e spirituale, è anche un prodigio di tecnica e di sperimentazione, capace di assorbire soluzioni da altri mestieri – dalla scultura alla lavorazione dei metalli – e di tradurle in luce, linea, preziosità.

Un capolavoro “politico”: la santità come corona del potere

Il soggetto della pala è di una forza teatrale assai congeniale per Simone: Ludovico di Tolosa, principe angioino, rinuncia al trono per farsi francescano; diventa vescovo; muore giovanissimo (a 23 anni); viene canonizzato nel 1317 e, secondo gli studiosi, proprio in quell’anno viene eseguita la tavola.

In scena, Ludovico è seduto in trono: il saio francescano contrasta con le ricchissime vesti episcopali. Due angeli gli pongono la corona celeste; lui, con un gesto solenne, incorona Roberto d’Angiò, re di Napoli. È un’immagine religiosa, certo ma anche un manifesto: la santità diventa garanzia dinastica e la corona terrena appare “legittimata” da quella celeste.

Si tratta di un capolavoro storico-politico oltre che artistico: esso serve a rafforzare il prestigio e la genealogia della casa regnante. Stemmi e simboli parlano quanto i volti: il Regno di Gerusalemme compare sulla fibbia del piviale; la cornice blu ornata di gigli d’oro richiama il ramo napoletano dei Capetingi. È la pittura che diventa diplomazia.

Per Siena, questa pala è una lezione ancora attuale: ci ricorda che i nostri grandi artisti non furono “provinciali” o nazionali ma protagonisti di una rete europea e mediterranea. Simone Martini, tra i massimi interpreti del gotico internazionale, parte da Siena e approda alle corti: non porta soltanto un gusto, porta un metodo, una qualità narrativa e cromatica che sanno parlare al potere senza perdere poesia.

E in quell’iscrizione – “Symon de Senis” – c’è qualcosa di più della firma: c’è un rapporto fra Città e artista che oggi possiamo leggere anche come responsabilità. Se un’opera così monumentale (oltre tre metri d’altezza, pur incompleta per la perdita di elementi architettonici e di una tavola superiore) continua a vivere è perché qualcuno la custodisce, la studia, la mantiene. La tutela è un patto tra generazioni, non una parentesi.

Un invito ai senesi: vedere un restauro è vedere l’opera “da dentro”

C’è, infine, un motivo molto concreto per cui Siena dovrebbe guardare a Capodimonte in questi mesi: poter assistere a un restauro, in sala, significa osservare un capolavoro in una condizione rarissima. Si colgono dettagli invisibili a distanza, si comprende quanto l’opera sia anche oggetto, struttura, equilibrio e si misura quanto lavoro ci sia dietro quella “naturalezza” che Martini sa rendere miracolosa.

Siena ha in Simone Martini uno dei propri massimi emblemi: ma ogni emblema, per restare vivo, ha bisogno di essere rimesso a fuoco. Il restauro napoletano, realizzato con l’Opificio fiorentino, è anche un modo per riascoltare – fuori dai manuali e dentro la materia – la voce di un artista che, sette secoli fa, seppe scrivere “da Siena” in un’immagine destinata al mondo.

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